/ Commestìbile / #24
Partendo dal titolo di questa newsletter, che potrebbe ricordarvi alcuni pezzi de Il Post, che a loro volta potrebbero ricordarvi certi titoli della stampa anglosassone/americana, che si avvalgono di formule ben collaudate per indicare diversi tipi di contenuto giornalistico.
Cosa c’è in questa newsletter
Il mestiere perduto del titolista
Come sono cambiati i titoli dei giornali che parlano di cibo
Una precisazione sui titoli clickbait
La mia esperienza da editor
Prontuario per i titoli (di cibo e non)
Comporre i titoli per un pezzo giornalistico di qualsivoglia natura è un’arte molto raffinata, lasciata spesso in mano a editor stanchi, a giornalisti e collaboratori pagati poco o che potrebbero non avere l’istinto per un buon titolo. Parlo di ‘istinto’ perché per fare un buon titolo, che catturi l’attenzione e che allo stesso tempo non tradisca il contenuto del pezzo, ci vuole un po’ di talento. Certo, ci sono le formuline magiche—vedi “La scienza di…”—ma non tutti i pezzi si prestano ad essere categorizzati e alcuni hanno bisogno di un piccolo aiuto.
Il mestiere perduto del titolista
Una volta c’era il titolista, editor che nei grandi quotidiani cartacei aveva il compito di trovare titoli corti capaci di catturare l’attenzione nelle edicole. Non a caso il mestiere del titolista è associato anche a quello tipografico, ovvero colui o colei che si occupa di impaginare i titoli nelle edizioni cartacee dei giornali. Pensate anche alle civette dei quotidiani, ovvero quei manifesti con frasi stringatissime, che davanti alle edicole riassumono i titoli più importanti del giorno di un quotidiano. E che spesso hanno effetti molto divertenti, sebbene non voluti.
Alcuni titoli di apertura dei quotidiani sono diventati pezzettini di storia: il “Fate Presto” de Il Mattino in occasione del terremoto in Irpinia. Celebri anche quelli de Il Manifesto, che sono diventati essi stessi fonte di notizia. Con gli anni, i tagli alle redazioni dei quotidiani e dei magazine, più la digitalizzazione che ha reso tutto più veloce, hanno portato alla graduale eliminazione di questo ruolo e anche di molti altri ruoli complementari, come un numero congruo di redattori interni alla redazione. E i risultati sono spesso dei titoli pigri che rischiano di azzoppare un buon contenuto.
Come sono cambiati i titoli dei giornali che parlano di cibo
Se c’è un settore pigro, anzi pigrissimo, in quanto a titoli di articoli, è quello gastronomico. Sebbene ci sia stata anche qui una sorta di rivoluzione mutuata da altri generi giornalistici.
Ma in ordine ecco lo status quo dei titoli legati al cibo:
Grandi classici intramontabili: i titoli leziosi delle ricette e di tutti i procedimenti culinari. Il target, ancora idealmente, sono donne che si prendono cura della casa e che evidentemente hanno bisogno di essere rassicurate da titoli sempre uguali:
“Come fare il filetto alla Wellington perfetto”
Non buono, non ok, perfetto
“I migliori aperitivi fatti in casa per i vostri ospiti”
Viviamo in un’eterna puntata di Cortesie per gli Ospiti
“La carbonare secondo tradizione: il primo facile per tutti”
Qui “secondo tradizione” e “facile per tutti” combo professionale
Sul perché le ricette poi non vi vengano quasi mai, vi rimando a questa riflessione sulle quelle che trovate online.
Poi ci sono i titoli per i pezzi dedicati ai ristoranti o alle liste dei ristoranti, genere che regge la stampa gastronomica da circa 10 anni e che, nonostante il continuo abuso da parte di giornali online, vecchi e nuovi, continua a fare capolino nelle homepage:
“I migliori panifici di Roma/Milano/Bologna”
Titolo minimal, che può ovviamente scontentare e creare querelle nei commenti sui social ‘Ma come migliori, manca il forno di mio cugino Salvatore’“Dove mangiare a Milano durante il Fuorisalone”
Devo ancora capire per chi viene scritta questa fantomatica lista: per gli stranieri che non leggono i magazine italiani; per chi vive a Milano tutto l’anno; per fare felici gli uffici stampa? Stesso dicasi di Torino in occasione del Salone del Libro o di Venezia per il Carnevale.“I più incredibili Kebab di Caltanissetta”
L’iperbole che ti fa drizzare le antenne, ma poi ti aspetta pressoché lo stesso contenuto di altri pezzi.Il racconto in prima persona, il ‘pezzo esperienziale’. Una new entry degli ultimi 5/6 anni dire, nella stampa gastronomica italiana almeno, mutuata dalla stampa più giovane americana.
“Ho mangiato tutte le ostriche del Nord Europa in tre giorni”
Ti faccio vedere quanto sono cool a rischiare un’intossicazione alimentare“Abbiamo provato tutti le merendine italiane degli anni ‘80 e queste sono le migliori”
Così per testimoniare che quello che leggerete è una prova di assaggio senza paura. Qui c’è anche la combo nostalgica, da non sottovalutare.“Com’è davvero il nuovo ristorante di ‘Nome Chef Famoso’”
Quando c’è hype attorno a un nuovo indirizzo metto il rafforzativo così di faccio capire che sarò onesta.Poi c’è il titolo che negli ultimi anni ha trovato forse più riscontro su quotidiani e magazine di settore. Il ‘cambio vita’ con titolo altamente narrativo, che rende una cosa abbastanza ordinaria, degna di diventare notizia.
“Lo chef stellato che lascia il ristorante di Roma e apre la sua gastronomia di paese in Molise”
Lettori e lettrici del magazine che vivono in Molise: circa 1%“La manager della multinazionale milanese che adesso alleva una razza di pecore quasi estinte in Sardegna”
I titoli che mettono alla berlina il capitalismo e l’aziendalismo vanno ancora fortissimo, e se ci metti Milano poi…
Come notate qui lo stile narrativo esige una lunghezza che la carta stampata non può concedere, e che spesso neanche si confà agli spazi ridotti dati dalla condivisione sui social. Questo non sembra irretire editor o giornalisti che vogliono “raccontare storie” tutte in un solo titolo, senza lasciarci neanche un po’ di suspense una volta aperto il pezzo.Se volete qualche altro spunto, non correlato al cibo, qui trovate un po’ di “modi” di comporre titoli ed headline.
Una precisazione sul Clickbait
In molti chiamano i titoli più “attraenti” dei magazine—di cibo e non—“clickbait” ma a dire la verità il titolo acchiappaclic è un’altra cosa. I titoli clickbait sono come quelli qui sopra, ovvero lasciano intendere che ci sia una notizia scioccante nel pezzo che molto probabilmente non troveremo. Sono titoli che promettono storie strappalacrime o legate a droga, vita privata delle celebrità e sordidi scandali.
Per esempio in Italia, in ambito gastronomico, sono titoli clickbait quelli di iFood, un giornale di cibo che anni fa partì con autori-trici specializzati in ambito gastronomico, ma che adesso sembra un ricettacolo di articoli clickbait con fonti poco verificate. È di proprietà della Magellano Tech Solution che ha anche altri magazine online verticali, accomunati dalle stesse modalità di comunicazione e pratica giornalistica.
La mia esperienza da editor
Come racconto qui, ho lavorato nell’editoria gastronomica per molti anni. La mia capa di qualche lavoro fa una volta mi disse “Non tutti nascono titolisti, e tu chiaramente non lo sei”. Poi però ho dovuto fare un corso accelerato di titoli quando mi hanno chiamata a dirigere Munchies Italia.
I titoli e i pezzi“alla Vice”, un vero e proprio genere, che vuoi o non vuoi ha fatto scuola in Italia come dice qui in Scrolling Infinito Andrea Girolami, dovevano essere piegati al racconto gastronomico, e non era sempre facile, perché i target erano in molti casi diversi e il taglio controverso di Vice non era sempre adatto per raccontare di ristoranti e cibo.
Per fare un po’ di pratica andavo allora—era il 2017—sul generatore di titoli automatici di Vice, purtroppo non più online (era su L’Ibernazione). Resta oggi solo quello in inglese, che trovo comunque geniale. Con gli anni ho trovato il mio modo, mettendo al centro le storie quando era possibile, o semplicemente il tratto più peculiare di quel pezzo. O utilizzavo delle formule fisse che facessero intendere al nostro pubblico il tipo di articolo, coltivando dei format. Era la prima volta che tutto questo veniva fatto in Italia nell’ambito cibo; probabilmente solo Dissapore prima aveva utilizzato formule un po’ più coraggiose o stili più schietti per i suoi pezzi.
Per i titoli ho usato quasi tutte le formule di cui vi ho parlato sopra—iperboli, prime persone, titoli narrativi—e negli anni molti giornali di cibo tradizionalisti italiani si sono visibilmente piegati a questo modo più contemporaneo e anglosassone di comunicare, anche sui social.
Oggi se date un occhio a diversi magazine di cibo—Gambero Rosso, CiboToday, ReporterGourmet—vedrete titoli catchy, esperienziali e discorsivi, insperati solo 5 anni fa e che prendono ispirazione un po’ da una scuola “titolista” più internazionale. Questo è anche specchio di come anche l’imperturbabile racconto gastronomico, considerato spesso noioso e stantio, abbia possibilità di evolversi e, difatti, si sia evoluto.
Piccolo prontuario sui titoli utile a tutte e tutti
Non sono titolista de Il Manifesto, sono solo una editor che ha fatto un po’ di esperienza con pezzi di cibo e non. Negli anni ho incontrato editor più brave e più bravi di me, dalle quali e dai quali ho imparato molto, grazie soprattutto al confronto giornaliero.
Quando, però, dico sopra che serve un po’ di talento o fiuto giornalistico, lo dico a ragion veduta: durante la mia carriera ho cercato di insegnare “a fare i titoli” a editor junior o social media manager, a volte con scarso successo. Una collega social media manager indispettita una volta mi chiese “ok, spiegami come devo fare, perché non capisco”, e in effetti non fui in grado di spiegarle come fare con delle formule scientifiche, perché di base non ce n’erano. Allora ho provato a tirare giù qualche linea guida che con tutta probabilità le darei adesso.
Un titolo di un articolo dovrebbe comunicare in poche battute (60/80 caratteri) il contenuto del pezzo, senza la presunzione di parlare di tutto quello che si trova all’interno, soprattutto in presenza di longform. Sforare si può, ma senza affastellare di informazioni il lettore.
Rapidità ed essenzialità: senza scomodare le abusate Lezioni Americane di Calvino. Se c’è un modo più semplice e diretto di mettere un titolo, allora opta per quello. Evita termini molto romantici o retorici.
Se si ha una redazione di riferimento, o dei colleghi con cui è possibile confrontarsi in chat, sei già a metà del lavoro. I titoli che nascono da lavori “collettivi” sono sempre quelli vincenti.
C’è una parte del pezzo che è più interessante? Può essere condensata in poche battute? Allora è un titolo.
Molti titoli possono affossare un buon pezzo. Guarda questi grassofobici ad esempio.
Iperboli: vanno dosate. Non può essere tutto incredibile e pazzesco. Lo dico io che negli anni ho certamente abusato di aggettivi gloriosi.
Esperienziale: usiamolo quando ha senso. Se hai fatto un viaggio in un posto sconosciuto, ad esempio, o se hai mangiato cose considerate “strane”. Se sei andata alla sagra del tarallo forse puoi trovare una formula meno sensazionalistica. Poi dipende sempre da quanto fosse figa questa sagra, in effetti.
Se puoi, non dare il titolo a un pezzo che hai scritto tu stessa/o. I peggiori titoli sono quelli che diamo ai nostri pezzi, un po’ perché conoscendo così bene l’argomento ci piacerebbe includere ogni dettaglio possibile nel titolo, un po’ perché ci manca la distanza dal testo per individuare un buon ‘riassunto’.
Se vuoi sponsorizzare questa newsletter
Dopo un po’ di pensieri al riguardo ci siamo convinte che per mantenere gli standard alti di questa newsletter (almeno speriamo che per voi siano alti) e per includere anche altre firme nel progetto, ci piacerebbe raccogliere delle sponsorizzazioni per i prossimi numeri.
Se sei un’azienda o un’agenzia e vuoi comunicare a un pubblico profilato di lettori e professionisti, Commestibile è un posto interessante dove farlo.
Contattaci a roberta.abate@commestibile.com .
Potrei scrivere molto sui titoli che altri hanno dato ai miei articoli (il più delle volte travisandone il contenuto) :D
Comunque sì, il mestiere di titolista dovrebbe proprio tornare (e non sarei in grado di farlo).
Pensa che ogni mattina leggo le newsletter di Cibo Today e Gambero Rosso e alle volte non mi rendo conto di quale stia leggendo tra le due a causa dei titoli tutti uguali. In realtà la differenza c'è: il Gambero è un po' più variegato e usa varie formule, da quelle classiche di stampo "shock" a quelle che ti propongono la notizia nella prima parte del titolo e poi c'è il colpo di scena nelle seconda parte ("L'Europa approva la carne marziana. Ma gli ambasciatori del pianeta rosso insorgono"). I titoli di Cibo Today invece sono dei poemi senza punteggiatura che si reggono sulle subordinate: l'etichetta del cambiamento che hai usato è azzeccatissima, costituisce praticamente l'80% dei loro titoli, e ti fanno passare la voglia di leggerli. Peccato, perché ci scrive gente in gamba raccontando storie molto interessanti, ma evidentemente i titolari del sito ritengono che non lo siano abbastanza. Proprio qualche settimana fa in una nota qui su Substack avevo evidenziato che in passato un buon titolista era chi ti sapeva riassumere un contenuto in due parole attirando la tua attenzione perché lo spazio su carta era poco e in prima pagina era occupato da caratteri cubitali con dimensioni da 80 a 200. Oggi che lo spazio digitale è virtualmente infinito nel giornalismo online si è persa questa sottile arte riassuntiva che era tipica dei bravi copy, capaci di far vendere milioni di copie. Il vero clickbait, anzi buybait, lo facevano loro, altroché.