"Chi ti paga la cena?" e altre domande impopolari sul giornalismo gastronomico
Chi paga le cene? Perché escono tutti quegli articoli insieme su uno stesso locale? Chi sono i tartinari?
/ Commestìbile /
“Expo 2015: bloccato a Malpensa un carico di insetti commestibili”. MilanoToday raccontava così il sequestro di insetti edibili per una mostra nel sito dell’Expo. Mancava il via libera del Ministro della Salute, allora Beatrice Lorenzin. Il Governo era quello di Matteo Renzi.
Lavoro nell’editoria gastronomica da 10 anni. Arrivata a Milano volevo fare la stylist nei giornali di moda, ma per varie vicissitudini a un certo punto trovai un lavoro, pagato comunque poco, nel giornalismo gastronomico. Era prima dell’Expo 2015, per intenderci, e fui assunta solo perché sapevo cos’era la SEO ed ero smanettona.
All’inizio non nego un grande sconforto; vivevo come un fallimento il cambio di specializzazione, ma avevo bisogno di quel lavoro. Non mi interessava nulla dei grandi chef—le cose non sono cambiate poi così tanto—, tantomeno passare giorni e giorni rinchiusa in questi epocali congressi di cucina in cui, edizione dopo edizione, c’erano sempre gli stessi cuochi maschi a parlare di quanto dovevano ringraziare le loro defunte nonnine, per avergli dato i mezzi per rivoluzionare la storia della gastronomia mondiale
Il sommario di questa Newsletter
Come funziona il giornalismo gastronomico in Italia?
Chi paga le cene dei critici o dei giornalisti?
Il conflitto di interessi e l’autocensura
Rimborsi, critiche e scroccate. Dissapore e Chiara Cavalleris
Qualche vostra domanda da Instagram
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Negli anni ho lavorato a FineDiningLovers e ho diretto Munchies Italia; due testate molto diverse fra loro per toni e target, e che per motivi ancora più diversi hanno segnato in qualche modo l’editoria di settore. Adesso faccio la consulente per altri progetti editoriali. E ogni tanto insegno, proprio ai master di giornalismo gastronomico, in cui provo a spiegare come si fa questo lavoro, e in cui dico a tutte le ragazze e i ragazzi che incontro che se hanno un piano B, forse perseguirlo non è una cattiva idea. E una delle domande che negli anni mi è stata rivolta più spesso dagli alunni è sempre: “ma come funziona quando voi giornalisti andate al ristorante?”
La domanda, volutamente generica, ha invero un intento abbastanza preciso: vogliono sapere chi paga il conto quando vai a mangiare così spesso fuori. “Ti riconoscono e ti offrono la cena, giusto?”. No Carmela, ho una faccia abbastanza comune, nessuno mi riconosce. “Te lo rimborsa la testata?” No, Giovanni, non funziona così.
Come funziona il giornalismo gastronomico in Italia?
Quando trovate nello stesso periodo decine di articoli dedicati sempre allo stesso locale, da qualche parte c’è stata una cena a scrocco
Innanzitutto facciamo una distinzione di massima: c’è la critica gastronomica, quella che si occupa di ristoranti, che dovrebbe valutare menu, la mano dello chef, il rapporto qualità prezzo, il servizio, etc. È ormai un lavoro, quello del critico, sopravvissuto solo in testate statunitensi importanti o relegato alle guide cartacee. Non è neanche più un vero lavoro in realtà, o meglio sono in pochi a potersi permettere di fare solo quello.
C’è poi il giornalismo gastronomico, che banalmente si occupa di tutto quello che è commestibile—dai ristoranti all’agricoltura, dalle tendenze ai temi sociali—e che si dovrebbe avvalere di interviste, dati, osservazione… dei fatti insomma. Il giornalismo è appunto giornalismo, non può prescindere dalla notiziabilità e dalle fonti; entrambi i parametri spesso sono accantonati in un cantuccio dalle maggiori testate e da tantissimi autori.
Come forse già sapete questi due mondi—quello della critica e del giornalismo—si confondono e si mescolano continuamente, mettendo a repentaglio spesso la credibilità di quotidiani e magazine, per una serie di motivi che cercherò di spiegare.
Chi paga la cena?
Una volta, eoni di anni fa, le cene dei giornalisti si tramutavano in copiosi rimborsi spese: il giornalismo gastronomico in Italia nasce un po’ così, quando molti corrispondenti, soprattutto sportivi, erano in giro per l’Italia e iniziavano a sperimentare ristoranti blasonati a spese di quotidiani nell’epoca che noi scientificamente chiameremo “delle Vacche Grasse”, epoca alla quale noi millennials guardiamo sempre con desiderio e disperazione. Ricordo sempre un collega attempato ma simpatico che durante una cena mi disse “i tassisti quando sapevano che eri giornalista ti regalavano blocchetti interi di ricevute, così potevi utilizzarli per farti rimborsare soldi mai spesi”.
Ora, io negli anni ‘90 avevo 4 anni, e non so se tutta questa abbondanza ci fosse realmente; voglio credere che i racconti siano oltremodo esagerati. E adesso, visto che i giornali “è già tanto se ti pagano per un pezzo”, come funziona quando un critico o un giornalista deve andare al ristorante?
Ci sono diverse vie, nessuna migliore a livello economico, etico o lavorativo.
Ti invita lo chef o l’ufficio stampa. Lo chef ti invita perché magari ti conosce, le/gli stai simpatica/o o preso dal suo ego vuole che si parli di lui in tutta la carta stampata possibile, dal blog della Signora Pinuccia al Il Sole 24 Ore. L’ufficio stampa in genere, fatte le dovute differenze, organizza delle cene collettive anche molto affollate—pre-Covid almeno era così—in cui si sceglie quali testate e giornalisti coinvolgere. Si mangia e si beve a scrocco, ma menu e vino generalmente sono scelti già a priori da ristorante e ufficio stampa. Fai un percorso degustazione uguale ad altre 10 persone con il risultato che tutti scriveranno le medesime cose, sia di quella cena che di quel ristorante. Quando trovate nello stesso periodo decine di articoli dedicati sempre allo stesso locale, da qualche parte c’è stata una cena a scrocco. Altri uffici stampa lavorano meglio di altri (e di questo un giorno ne parleremo proprio coinvolgendo chi fa bene questo lavoro) e cercano di scaglionare inviti o di lasciare ai giornalisti più autonomia in quello che vogliono mangiare.
La persona che vuole scrivere di quel ristorante decide di spendere buona parte dei suoi pochi introiti andandoci per conto proprio. Chi lo fa in genere ama andare al ristorante e lo farebbe ugualmente, e decide di scrivere di quegli indirizzi dopo essere stato bene anche da cliente. A volte il suddetto o la suddetta giornalista conoscono lo chef? Probabile. Vale quindi sottolineare che in alcuni casi potrebbero esserci dei trattamenti di favore, tipo uno sconto o qualche piatto extra dalla cucina.
Qualche testata, pochissime, e le guide cartacee, concedono un piccolissimo rimborso. Niente Vacche Grasse, quindi, ma un piccolo aiuto economico che consente al giornalista/critico di non dover elemosinare dallo chef e di non porsi molti problemi sul suo conto in banca. In questo le guide sono più solerti, anche se, chi recensisce i ristoranti per le guide cartacee o online ha dei rimborsi a volte così ridicoli—30/40 euro per una cena, senza contare magari la benzina per arrivare in posti ameni—che se può poi si fa invitare da chef o dall’ufficio stampa.
Molte/i giornaliste/i che conosco non adottano un modello unico, piuttosto ibrido unendo i primi due modi. Inglobano anche la terza via, se sono fortunate/i. I casi limite vengono chiamati in gergo tartinari (definizione forse più romana che milanese). Su Munchies Andrea Strafile scrisse anche di un celebre gruppo, chiamato i portoghesi, gruppo di giornalisti accattoni, che si aggirava per tutta Roma, specializzato nello scroccare buffet di ogni tipo in tutti gli eventi stampa della Capitale. Chissà se sono sopravvissuti al Covid.
Il conflitto di interessi e l’autocensura
Se il giornalismo gastronomico non può permettersi di pagare il ristorante stellato allora non bisogna parlare di ristoranti stellati, mi sembra logico
In molti dicono che accettare di sovente di partecipare a tutte queste cene stampa (possono essercene due o tre a settimana in città come Milano e Roma) infici il giudizio del giornalista. È vero? Io rispondo che dipende dal giornalista, ma se dovessi inventarmi una statistica a caso, direi che il 70% di chi scrive di ristoranti dipende dagli inviti aggratis e quindi non si azzarda a scrivere male di un posto, ne scrive addirittura bene anche se lo ha trovato mediocre. Pena far arrabbiare ristoratori e uffici stampa. Ricordiamoci del casino venuto fuori con la critica al ristorante Bros a Lecce.
Il critico, di qualunque ambito faccia parte, moda o intrattenimento, avrà sempre un dubbio etico sul parlare bene o male di un posto o di un prodotto. E probabilmente si autocensurerà. Ho letto recentemente questo articolo sul neonato HollywoodReporter italiano, dove si dice sostanzialmente la stessa cosa, ma sul cinema: “I condizionamenti [della libertà di giudizio] sono sostanzialmente di due tipi. Ci sono quelli imposti dal luogo in cui ci si esprime e quelli che invece lo stesso critico tacitamente assegna al proprio lavoro. Entrambi possono essere subdoli.”
Io in passato ho accettato molti inviti stampa: mi hanno consentito di imparare qualcosa su questo mondo e sui ristoranti quando, lo ammetto, non avevo la passione per la ristorazione e non ero di certo disposta a spendere soldi miei per farmela venire.
Come avete letto adesso nella prima puntata di Commestibile su Milano, adesso i soldi per mangiare fuori ne spendo, pure troppi. Ma all’epoca avevo 20 anni e uno stipendio risicato. Negli ultimi tempi ho accettato sempre meno inviti. Un po’ perché le cene stampa mi annoiavano, un po’ perché immettersi nel circo dell’invito, del recall per l’articolo e del “non ne scrivo perché secondo me non è interessante” è emotivamente stressante.
Sottolineo, però, che io non sono una critica e che il mio lavoro è sempre stato incentrato sul parlare di ristorazione quando c’era una storia dietro o effettivamente c’era una tendenza da raccontare.
Rimborsi, critiche e scroccate. Dissapore e Chiara Cavalleris
Il fine dining sta implodendo, a causa di crisi economica e logistica, e rischia di implodere di conseguenza anche il giornalismo legato fine dining.
Non conosco molti giornali online che danno i famosi rimborsi per le cene: a Munchies li davo. Se chiedevo di parlare di un ristorante in particolare, o chiedevo un food tour, oltre che la fee del pezzo era contemplato anche un rimborso, stabilito prima. Fare quadrare i conti non era mai facile e forse più di una volta ho fatto finanza creativa sul borderò, che sarebbe il budget a disposizione degli editor per pagare i collaboratori esterni.
Un altro magazine che rimborsa le cene è Dissapore; questa “regola” l’ha introdotta Chiara Cavalleris, caporedattrice della testata, da sempre paladina della critica gastronomica indipendente, a cui ho fatto qualche domanda proprio su questo tema e su altri che toccano questo lavoro.
Chiara, quanti giornali conosci che danno i rimborsi per le cene?
Chiara Cavalleris: Non ho certezze assolute, ma a parte Dissapore e Munchies non credo ce ne siano molti altri. Le guide danno un po’ di rimborsi simbolici, che almeno coprono qualche spesa, ma in genere i pagamenti arrivano molto tardi.
Prima di dirigere Dissapore eri una giornalista freelance: riuscivi a campare con questo lavoro?
Ho iniziato molto giovane e non ci campavo, ma contemporaneamente studiavo, quindi era normale. Sono diventata caporedattrice di Dissapore a 28 anni; prima facevo politica e attualità, ma è sempre stato part-time. In seguito mi sono iscritta a Scienze Gastronomica a Pollenzo.
Come mai il giornalismo gastronomico?
Sono tre i motivi che mi hanno portato a passare al giornalismo gastronomico, due più personali e uno più pratico. Sono di Alba, quindi ho iniziato a fare degustazione fin da ragazzina; se nasci da queste parti è inevitabile iniziare a scrivere di cibo. Poi ho purtroppo sofferto di disturbi alimentari e anche grazie a questo lavoro ho avuto modo di lavorarci su. Il terzo motivo, più prosaico, è che il giornalismo generalista è molto più competitivo, mentre il livello nel giornalismo gastronomico è spesso così basso che, anche se sei solo bravino, alla fine ce la fai.
Cosa ne pensi delle cene stampa? Accetti gli inviti da parte dei ristoranti?
Vado molto poco, ma quando vado lo faccio volentieri perché mi serve per avere contatti anche con i colleghi; facendo noi le recensioni dei ristoranti in maniera indipendente, mi sono trovata spesso a spiegare alla gente chi ci fosse dietro la testata. Quando partecipo a questi eventi cerco di chiarire, con chi mi ha invitato, che non farò subito dopo il cosiddetto “pezzo marchetta” e che valuterò in seguito se c’è materiale per un’uscita. Se capisco che l’invito è do ut des evito di accettare, è più semplice. Evito allo stesso modo quando capisco che si tratta di una cena di un ristorante che ha davvero bisogno di pubblicità; rispondo che lo provo per cavoli miei, così da evitare fraintendimenti.
Non demonizzo di per sé il pranzo stampa; il tema deve essere sempre mettersi nei panni del lettore. Se vai a farti la scroccata, devi pensare a cosa può interessare al lettore della tua scroccata. Per esempio, durante molte cene stampa non ti danno neanche il menu con i prezzi, quindi tu leggi tutte queste recensioni senza i prezzi dei piatti, ma al lettore quello interessa eccome.
Il conflitto di interesse poi non è solo quello nei confronti dell’ufficio stampa: lavorando in contesti ristretti come la ristorazione, per esempio, ti capiterà di incontrare qualcuno che conosci già—dal cuoco al cameriere—quindi quell’aspetto, a mio avviso, è ancora più difficile da gestire, perché tocca la sfera personale. Io non ho problemi a dire la mia, anche se conosco qualcuno o mi invitano, ma molti si fanno condizionare.
Pensi che ci sia libertà di espressione quando sei dipendente da questo tipi di inviti?
La libertà di espressione secondo me è molto scarsa, questo mi sembra naturale. Ma il mio punto è ancora un altro: se il giornalismo gastronomico non può permettersi di pagare il ristorante stellato, allora non bisogna parlare di ristoranti stellati, mi sembra logico. Al lettore non gliene frega nulla della nostra opinione su Bottura, semmai su Berberè. Se poi possiamo permetterci di provare lo stellato ok, ma il pensiero deve essere libero, altrimenti ci relegheremo per sempre a un giornalismo di serie B. Il fine dining sta implodendo, a causa di crisi economica e logistica, e rischia di implodere di conseguenza anche il giornalismo legato fine dining.
Come funzionano i rimborsi da Dissapore?
Noi rimborsiamo tutto quello che serve, non è semplicemente un rimborso simbolico. Per una pizzeria, ad esempio, possiamo rimborsare anche 40 euro se serve per il pezzo. Credo che poi i rimborsi debbano essere quantificati in base alla zona e alle tipologie di ristoranti. Una sola formula non è sostenibile. Noi di Dissapore gli stellati li paghiamo, per dire, ma per un indirizzo fine dining che trovi sulla nostra testata, trovi almeno 10 pizzerie; non abbiamo fondi illimitati.
Qualche domanda da Instagram
Sul profilo Instagram di Commestibile ieri vi ho chiesto se avevate domande sull’argomento ed eccoci qui.
Quando vengono pagati in media i pezzi nel giornalismo gastronomico?
Dipende, ma mediamente direi molto poco. Siti molto noti in rete non arrivano a 20 euro a pezzo, e anche diverse sezioni tematiche di quotidiani non vanno oltre i 30/40 euro. I femminili e i magazine di grandi case editrici si muovono sui 50 (netti o/e lordi) ma non solo per il cibo, anche per moda, attualità, beauty, etc. Poi ci sono delle eccezioni, magazine che per dei longform vanno anche oltre gli 80 euro e arrivano a 150 euro. Poi alcuni collaboratori hanno dei contratti in cui hanno un fisso al mese per tot pezzi, ma no, chiaramente non si diventa ricchi scrivendo.
Alcune volte leggo listoni di ristoranti appena pubblicati con grandissimi errori (magari il ristorante è chiuso da tempo o il cuoco è cambiato).
Amica, capita. Ovvero non dovrebbe, ma quel listone di ristoranti—“I migliori tramezzini di Venezia”, “I migliori ristoranti di Caltanissetta”— spesso è stato compilato nel tempo e non tutti gli indirizzi sono stati visitati di recente. Bisognerebbe fare un check telefonico, vero, ma se lavori a ritmi forsennati e devi scrivere 5 pezzi al giorno per campare, spesso non riesci a fare tutto a modo. Io per quello non me la prendo col giornalista, ma con la testata. O col capitalismo o la media industry andata a farsi benedire. Non è tempo di vacche grasse.
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Morto a 74 anni Gianni Mura. Giornalista sportivo e gastronomico (Gambero Rosso)
Altro che Banda della Tartina. A Roma c'è un leggendario club che scrocca cibo come lavoro (Munchies)
La storia un po’ comica un po’ tragica della stroncatura di un ristorante stellato a Lecce (Rivista Studio)
Fenomenologia eretica del critico “accomodato” (schiacciato da industria, algoritmi e social media) (Hollywood Reporter.it)
"Quando trovate nello stesso periodo decine di articoli dedicati sempre allo stesso locale, da qualche parte c’è stata una cena a scrocco". Descrizione perfetta! :) È l'articolo migliore che abbia letto sulla nostra pazza professione. Ai prossimi che mi chiedono lumi sulle mie mangiate inoltrerò direttamente il tuo pezzo.
“Se il giornalismo gastronomico non può permettersi di pagare il ristorante stellato allora non bisogna parlare di ristoranti stellati, mi sembra logico”. Sante parole e sarebbe bellissimo che fosse così.