Volevamo solo bere un drink
Tipologie di bar in Italia e nel Mondo + una riflessione sull'evoluzione dei cocktail bar.
/ Commestìbile / #11
Qualche mese fa eravamo in un nuovo cocktail bar a Milano: set-up un po’ coinvolgente, nomi strani per i drink, scelte che qualcuno definirebbe “coraggiose” per il cibo, intrise di quel marketing nostalgico fatto per attirare i millennials. Cocktail buoni, tutto sommato, forse esagerati in alcune formule. Scritte sui muri studiate per suscitare reazioni e qualche foto su Instagram facevano il resto.
Il format, così com’era, si era guadagnato qualche titolone a effetto sui magazine di settore, per il suo piglio esagerato, quindi molto facile da raccontare. Ma da persone che fanno consulenze per le nuove aperture, noi di Commestibile, non ci siamo sentite di giudicare il progetto: i bar devono fare più casino per essere raccontati dai giornali, almeno rispetto ai ristoranti. Un po’ perché il mondo della mixology in Italia qui è davvero ancora poco amato, un po’ perché qui non ci sono stati i celebrity chef a spingere il comparto.
Allora i format, la comunicazione e l’offerta giocano un ruolo fondamentale.
Il sommario di questa Newsletter
Quante tipologie di bar conosci?
Qualcosa sta cambiando nel mondo dei cocktail bar in Italia. Format di successo
Due bartender su format e problemi dell’industria
Tutti i link di questa newsletter
Quante tipologie di bar conosci?
Se ci pensate bene esistono poche e determinate tipologie di bar:
Il Dive Bar: il bar comfort dove trovi birra, drink a volte ok e a volte no, ma dove si tira tardi, si è in famiglia e si fa gran casino. Ne conosci sicuramente qualcuno, magari vicino il posto di lavoro o casa. Esempi: il Barbie deinhoff’s a Berlino (chiuso); Le Syndicat a Parigi; Katana Kitten a New York, uno dei più famosi al mondo che, oltre avere l’atmosfera giusta, serve cocktail incredibili e ha una cucina stile Izakaya che li ha chiaramente aiutati a raggiungere al successo.
I Bar d’Hotel: quelli più formali, chiamati spesso lounge, dove a farla da padrone sono prezzi esosi, baristi uomini, preferibilmente avanti con l’età, con uniformi chiccose e modi compiti. Un buon esempio l’American Bar del Savoy di Londra o l’Harry’s Bar a Venezia.
Tiki Bar: il format nato negli Stati Uniti negli anni ‘30, dove si celebra la passione per i drink ispirati alla Polinesia, farlocchi, con tanto di sapori fruttati, camicie hawaiane e mix di rum, lime e zucchero. La loro genesi ha molto a che fare con il colonialismo, ovviamente. Ha fatto la storia il Don The Beachcomber, sfortunatamente chiuso, che ha poi lasciato lo scettro al Tiki-Ti di Hollywood, aperto nel 1961. In Italia è una tipologia poco nota, ma abbiamo fra gli altri il Rita’s Tiki Room a Milano e ci consigliano di provare anche il Luau Tiki Bar di Bari.
I Bar all’Inglese: esempio perfetto il Dolphin a Londra, leggendario hangout della capitale, dove servono da bere fino a tardissimo e sono l’emblema dell’ospitalità della città, quella che non invecchia. Nessun fronzolo qui: puoi andare a bere “pickleback”, cocktail degnissimi o qualche pinta.
Speakeasy: il format dei bar “segreti” che, dopo anni di aperture folli e incondizionate in tutto il Mondo, ha avuto una sana frenata. È il bar nato durante il proibizionismo americano, adesso sinonimo di locale dove devi sbatterti un pochino per entrare. A volte basta una parola in codice per assicurarti un tavolo, altre ci sono porte nascoste dietro il bagno o quello che sembra un alimentari. Uno dei primi in Italia è stato il Jerry Thomas a Roma, a Milano celebre il 1930. Uno dei più famosi al mondo è il Please Don’t Tell di New York e Il Paradiso di Barcellona, dove oltre un’altra porta nascosta si servono cocktail intricatissimi, anche con insetti se capitate durante la serata giusta.
Listening Bar o Hi-Fi Bar; la tradizione giapponese dei kissaten con musica ha dato vita a bar dall’atmosfera intima, dove il suono pulitissimo parte da casse enormi, dove ci sono vinili ovunque e a volte dj set. Il format si è espanso negli ultimi anni in Europa, e fra i locali più celebri oggi c’è senza dubbio il Bambino di Parigi. In Italia ancora poco diffusi, ad eccezione di alcuni indirizzi a Milano, come il bar al piano terra di Ronin e Bene Bene (N.d.R: Victoria ha lavorato proprio come consulente per l’apertura di Bene Bene).
Quando si parla di cocktail bar, l’idea è che tutto sia più o meno standardizzato: sia in termini di mixology che in termini di ticket medio. In più, i format di successo vengono replicati all’infinito, con il rischio che molti si ritrovino a chiudere i battenti prima che tu abbia avuto il tempo di ordinare quel Negroni con vermouth mega di nicchia, fatto da dei carmelitani scalzi in remote località delle Alpi.
E parlando di chiusure: dal 2012 ad oggi il numero delle imprese che svolgono attività di bar è diminuito di circa 15 mila unità e ogni anno almeno 10 mila sono le imprese che cessano l’attività. Secondo Fipe “il risultato è che il tasso di sopravvivenza a cinque anni dei bar non raggiunge il 50%, ossia su 100 imprese che avviano l’attività ne sopravvivono meno di 50 a distanza di cinque anni.” Anche i pub, tipi di bar ancora diversi che sembravano non conoscere crisi, hanno tassi di chiusura preoccupanti a causa anche della Brexit
Per i bar di alto livello le problematiche sono le medesime dei bar “normali”, salvo che gli investimenti sono decisamente più alti, soprattutto quando si prende spunto dalle tendenze delle guide più prestigiose, vedi i World’s 50 Best Bars. Il risultato di questa tendenza sono bar identici che si susseguono in tutte le città del Mondo, con banconi di mogano, luci sempre un po’ sbagliate, colonna sonora pre-impostata da Spotify e davvero, DAVVERO, troppi amari in carta.
Qualcosa cambia nel mondo dei cocktail bar italiani?
Oltre il design, il mood e la tipologia di bar scelto, è interessante brevemente parlare anche di cosa si serve nei nuovi e vecchi cocktail bar.
Come scrive in questo pezzo di CiboToday Lavinia Martini, in Italia si vede poco ancora l’offerta dei mini cocktail, modo geniale di provare più cocktail senza avere per forza un hangover devastante il giorno dopo. Oltre al Norah Was Drunk già citato nel pezzo di CiboToday, li abbiamo visti anche da Carico e Unseen.
Una cosa che invece è cambiata vistosamente, restando ancora sul menu, è l’offerta food che in molti locali italiani si è fatta sempre più ricca. Anche questo aspetto è stato sdoganato all’estero, in particolare negli Stati Uniti (per motivi di licenze alcoliche). In molti cocktail bar, dunque, si inizia a mangiare davvero bene.
Guarda ad esempio Carico a Milano. Nel 2019 il barmanager internazionale Dom Carella ha aperto le porte del suo locale vicino i Navigli, dove ci si è concentrati tanto anche sull’offerta cibo, grazie all’head chef Leonardo D’Ingeo. Qui si va per bere una moltitudine di drink, vino e birre senza distinzione, e si può andare a mangiare qualcosa fino a tardi, sedute per bene e con un’ottima selezione. Interessante anche la room esperienziale, dove si possono fare percorsi dedicati al Martini o, come in questo momento, al Negroni.
Un altro trend che troviamo vincente, al momento, è il ritorno al minimal, sia nei gusti che nell’esecuzione del cocktail. Un posto che rispecchia bene questo trend è il A Bar with Shapes for a Name a Londra; in pratica un cocktail bar bauhaus. Un trend che si deve in gran parte a Ryan Chetiyawardana aka Mr Lyan, che sviluppa bar di successo a Londra e ad Amsterdam, come il Super Lyan o il Lyaness.
Due bartender su format di successo e problemi dell’industria
E poi diciamocelo, qui in Italia c’è poco divertimento. Magari questa noia nasce da un retaggio di servizio antiquato nel quale se andavi in un locale e ti divertivi, non era un locale di qualità.
Con la scusa di parlare di cocktail bar e format di successo ci siamo fatti una chiacchierata con due bar manager di Milano molto diversi fra loro, ma che hanno entrambi importanti esperienze all’estero.
Giovanni Allario ha lavorato per molti anni al Syndicat, Parigi per poi tornare in Italia per il progetto di Moebius a Milano, dove ricopre il ruolo di bar manager.
Le differenze fra un bar Parigi e uno a Milano?
Gio Allario: Da quando sono tornato ho visto una industry slegata, molto campanilismo, gelosia. Qui si lavora molto più rispetto ad altri paesi—6 giorni alla settimana minimo 8 ore—e il fatto di lavorare così tanto non ti permette di relazionarti ad altri nel tuo giorno off. Quindi ogni bar è un universo a sé stante e non c’è coesione, bisogna sempre grattare con le unghie per portare la gente assieme, ed è un peccato perché c’è un gran potenziale per risollevare tutto il movimento.
E poi diciamocelo, qui in italia c’è poco divertimento. Magari questa noia nasce da un retaggio di servizio antiquato nel quale se andavi in un locale e ti divertivi, non era un locale di qualità. Per essere un posto figo devi essere abbottonato? Secondo me no.
Questo è quello che sto cercando di implementare da Moebius, il fatto di avere una accoglienza fatta di sorrisi, risate, dietro al bar, quando possibile, perché anche i clienti devono essere aperti all’esperienza, e a termine mi piacerebbe riuscire a implementare un po più di ricerca sulla materia prima, di contatto col produttore. Siamo già in fase di avvio del processo. Stiamo, inoltre, attivamente cercando di dare un giorno libero in più ai lavoratori, vediamo quando riusciremo ahahah.
Invece quali sono le cose che vorresti veder cambiare in futuro nei bar?
Guarda ti direi che vorrei più tempo; diciamo che con i CCNL a disposizione è difficile fare un buon lavoro. Se una persona lavora 6 giorni a settimana per 8 ore, solo contando gli orari di apertura al pubblico, sfora già di 8 ore le 40 ore settimanali, immagina se stessimo davvero contabilizzando anche le ore di preparazione e chiusura. Con “l’avere più tempo” intendo avere modo di dare un miglior servizio, poter fare training allo staff, e avere tempo e energia per avere un miglior contatto con i clienti.
Chi sta cambiando le cose, quali sono bar secondo te “diversi”?
Secondo me Luke Worthy di Byrdi a Melbourne fa cose molto molto fighe, con prodotti locali e di stagione, usando diverse tecniche di fermentazione per aumentare il periodo di utilizzo del prodotto più lungo. Lui mi piace molto.
Milo Occhipinti è uno dei pochi italiani ad aver aperto un locale “diverso” nella moltitudine di cocktail bar tutti molto simili. Ha lavorato per anni a Londra e, quando è tornato in Italia, aveva ben chiaro cosa mancasse in città e quale sarebbe stato il suo progetto: Unseen.
Hai un format unico nel panorama milanese, italiano in generale, parlaci del tuo approccio.
Milo Occhipinti: Unseen differisce da tutti gli altri posti per una svariata lista di aspetti, salteremo i più lapalissiano, che sono quindi il layout, e andremo subito al punto per dirti subito quali sono i punti cardine che ho fatto diversamente dagli altri che sono anche diventati il drive del mio successo: Unseen prima di tutto non è stato concepito come un bar ma è stato concepito come un brand, sotto tutti i suoi punti di vista. La genesi è stata la costruzione di un brand, poi è stato materializzato il punto vendita del brand e di conseguenza tutta la identity coordinata, la mission, i valori, il manifesto.
Questo getta delle basi solide, granitiche per la comunicazione dei valori del brand al pubblico, e quindi mi aumenta in maniera esponenziale l’efficacia.
Punto numero due, che ovviamente si allaccia a questo: ho costruito i valori del brand ponendo come primo la connessione tra le persone, era un periodo, il 2020, nel quale si usciva dal trend del proibizionismo, che appunto metteva il focus sul barista come Demi-God , che centellinava la conoscenza e la dava piano piano alla plebe, io invece ho spostato il focus sulle persone e quindi ho messo il punto di forza lì, e di conseguenza il layout, etc etc per me e per il mio brand uno dei valori sono le persone che abitano il bar.
Mentre quando mi chiedono come mi è venuta questa idea la risposta è che, in vent’anni di esperienza come operatore e come cliente del bar, ciò che accomuna tutti i posti sono le persone, la risposta a una necessità sociale di riunire le persone.
Cosa non sopporti nell’industria dei cocktail bar ora?
In realtà ho oltrepassato questo step qualche tempo fa, ci sono tanti modi diversi per fare bar in questo preciso momento storico, e ognuno lo fa un po’ come cavolo gli pare, se uno decide di aprire uno speakeasy con i reggi maniche e i baffi a manubrio nel 2023, va bene, fallo, affari tuoi. Idem se vuoi aprirti una chupiteria. Non mi sento di odiarti per questo, però non verrò nel tuo locale perché non rispetta i miei valori.
Invece quali sono le cose che vorresti veder cambiare non tanto nella forma ma nella mentalità?
Parlo all’imprenditoria: ho un bisogno fisico che ci sia rispetto dei diritti dei lavoratori, e in maniera più generale i diritti degli individui, quindi no homotransfobia, no contratti in nero, no misoginia.
Dunque vorresti più trasparenza e più etica lavorativa?
Sì, etica esattamente, totale l’etica del lavoro e del rispetto dell’essere umano, su queste cose sono intransigente; infatti riallacciandomi ad un vostro sondaggio io ho risposto che ”se so che il ristorante o il bar non è etico, io non ci vado".
Questa nasce da una mia cosa interna che ho maturato e ho portato a superficie e rendermene conto, c’è una categoria di noi baristi (pochissimi) che fanno da bere per un’esigenza espressiva artistica.
Ovviamente questa cosa non viene mai capita. Stai provando ad esprimere un concetto senza parole, e già con le parole è difficile. Quindi il mio desiderio, il mio auspicio è che ci sia un cambiamento nell’utente, che magari uno su un miliardo possa avere la sensibilità, l’apertura per comprendere quello che gli viene detto.
Quali siano i tuoi format preferiti su Milano?
Il Tiki bar del Rita, perché sorridono e fanno il pornstar martini, e il Forno Barona perché è aperto H24 con focacce calde e Moretti fredde. Sinceramente nel panorama del beverage non mi emoziona niente dai tempi di Filippo Sisti.”
Tutti i link di questa newsletter
The Story of London's Most Famous Bar (Eater)
The Complicated History Of Tiki Drinks (The Tasting Tables)
What You Need To Know About Don The Beachcomber, The Original Tiki Bar (Food Republic)
Drink Immortali, la drink list del Jerry Thomas per fare la storia della mixology (Bar Giornale)
Shush... and enjoy the music: how listening bars have hit the right note (The Guardian)
Bene Bene. Il cocktail bar di Milano da tenere d'occhio (Gambero Rosso)
Fipe: in calo il numero dei bar in Italia (Fipe)
Brexit, pub inglesi a rischio estinzione? Ne chiudono oltre due al giorno (Il Sole 24 Ore)
Cocktail in versione mini. La mezza porzione che in Italia ancora non si trova (Cibo Today)
Cocktail bar con cucina in Italia: quali sono e cosa si mangia (Gambero Rosso)
Leggerla di venerdì mattina, in treno, fa venire una certa sete. Sarà una luuuuuuuuunga giornata
Parleremo (anche!) di cocktails e del loro ambiente (con François Monti!) al Congresso di Gastrinomia “Hablar de beber” - se sapete lo spagnolo, sarà online, gratis e con puntate ogni ultimo lunedì: https://thefoodiestudies.com/iv-congreso-de-comunicacion-y-periodismo-gastronomico-de-the-foodie-studies-hablar-de-beber/